Dedicata
a Manuela
senza la cui pazienza........
STORIE
DI VITA
Nel corso dei secoli,
letteratura, filosofia e feuilleton hanno legittimato le biografie
e le storie di vita di personaggi, autori e gente comune, come
luogo di conoscenza e di informazione. Nella seconda parte
del nostro secolo, la ricerca sociologica e in particolare la
scuola di Chicago, ha utilizzato i racconti degli emigranti
e di coloro che si sono sentiti pionieri del cambiamento, per
evidenziare i processi e le strutture sociali delle trasformazioni,
che hanno percorso gran parte della nostra storia prossima.
Dunque la semplice storia di vita da letteratura diventa strumento
di ricerca e dunque di scienza dell’evoluzione e del cambiamento.
La scoperta del potenziale trasformativo delle storie di vita,
ha convinto le scienze umane ad utilizzare le storie di vita
come strumento non più solo di informazione e di conoscenza,
ma anche di formazione e di conoscenza di sé.
Il conosci te stesso di Socrate
diventa dunque conosci la tua storia per decidere il tuo cambiamento.
Nell'età adulta l’operazione
del cambiamento è sempre difficile: abitudini, formae mentis
e complessità della vita non sempre ci permettono di padroneggiare
la nostra evoluzione.
Inoltre la modernità con
la sua complessità, la velocità e la multilateralità domandano
un pensiero sempre più plurale e sistemico. Principi ben saldi
rischiano sempre forti dissonanze cognitive senza che ne diventiamo
coscienti.
Il compito dell’adulto nella
sua veste etica impone dunque il sorvegliarsi il più possibile
affinché la vita non sia un luogo di ripetizioni e di abitudini,
ma un luogo creativo di esperienze, che si rinnovano nei loro
processi, e di cambiamenti costruttivi della personalità.
Se questo è fondamentale
per qualsiasi adulto è ancora più importante per un aspirante
Maestro di karate.
Conoscere la propria storia,
significa individuare quelle caratteristiche si, che ci hanno
fatto diventare quello che siamo, ma significa anche individuare
dentro di noi quelle potenzialità poco o ancora inespresse che
ci rendono più ricchi, aperti e disponibili all’evoluzione e
al cambiamento.
La nostra società occidentale,
si è sempre confrontata con il cambiamento, sicuramente privilegiando
il livello tecnico rispetto al livello filosofico, ma la tecnica
a lungo andare modifica anche la filosofia, non sempre portando
con sé la consapevolezza del mutamento. Anche l’Oriente si è
sempre confrontato con il mutamento, un mutamento vincolato
maggiormente dalla filosofia e dalla norma. Tra Occidente e
Oriente i processi e i risultati sono stati sicuramente diversi
ma ora in un quadro di globalizzazione culturale e professionale
si rende necessario una possibilità di comunicazione e una possibilità
di conoscenza, che porti all’interazione pur rispettando le
specifiche differenze. Il Karate non può essere visto come una
Giaponesizzazione dell’Occidente ma un aspetto della cultura
Orientale che ci trasmette ulteriori conoscenze e innovazioni.
Un futuro Maestro di arti marziali necessariamente si deve confrontare
con un doppio legame: il legame con la propria storia occidentale
dove è nato e cresciuto, un legame con la storia orientale che
ha scelto e sviluppato.
Quali tratti cognitivi, psicologici,
sociali, etici e fisici ha prodotto questi incroci con la storia?
Quale personalità di risulta
esce da questo doppio legame? Quali valori guidano il fare,
l’essere e il sapere?
Con queste pagine intendo
avvicinarmi alle problematiche di parte della mia storia di
vita al fine di capire meglio il rapporto tra me stesso e il
Karate e tra il mio personale modo di vedere il Karate e lo
scopo dell’insegnamento.
Questo serve a migliorare
il mio avanzamento nella disciplina e nello stesso tempo a cercare
sempre di riattualizzarla nei contesti nei quali la esprimo.
A cura di Davide Rizzo
STORIE
DI VITA E FORMAZIONE
Inizio
a praticare Karate all’età di 17 anni (1971) e scopro il Karate
attraverso un amico che, conoscendomi abbastanza bene, mi invita
in una palestra a seguire un allenamento. Mi ritrovo così faccia
a faccia con quello che sarebbe diventato di li a poco il mio
primo Maestro. Il Maestro è Bruno De Michelis e la palestra
era il C.S.K.S. (Centro Studi Karate Shotokan) di Venezia.
Chiedo subito il permesso
di iscrivermi. Domando se ci sono dei problemi a praticare questa
disciplina per uno con le mie caratteristiche fisiche, mi viene
risposto che non c’è alcun problema a praticare l’attività,
premetto che io dalla nascita soffro di poliomielite alla gamba
sinistra con conseguente atrofizzazione della muscolatura del
polpaccio e blocco parziale della caviglia.
Le rassicurazioni sembravano vere, la disciplina non sembrava
difficile, i calci potevano essere tirati per terra, la posizione
era, devo onestamente dire, molto comoda per me.
La metodologia dell’allenamento
veniva attraverso un percorso molto semplice alla cui base c’era
la ripetitività del gesto tecnico, poco tempo veniva lasciato
alla parola, giusto qualche chiarimento su come e cosa si esigeva,
in effetti non c’era molta comunicazione.
Nei miei ricordi la palestra
era un luogo molto chiuso, un luogo poco incline agli scambi
e alle informazioni, c’era solo un gran senso della disciplina
e vigeva una forte scala gerarchica con al vertice il Maestro
e le cinture superiori.
Quando rientravo a casa alla
fine degli allenamenti ero tutto indolenzito, la caviglia mi
doleva fino a farmi rimpiangere quello che stavo facendo e mio
padre brontolava dicendo che non era sport adatto a me; proprio
lui, che da giovane faceva pugilato come si usava ai suoi tempi.
A quei tempi il Karate non era conosciuto come oggi, però io
lo sentivo importante per me, e poi c’era il Maestro! Come facevo
a dirgli: è duro, smetto?.
Non sia mai! Non mi sono,
quasi mai, tirato indietro da una sfida e comunque mi ero preso
l’impegno di provare almeno per qualche mese. Tra l’altro questo
era anche un modo per liberarmi dalla famiglia che mi voleva
chiuso in un vaso di vetro, solo perché uno è nato un po’ “diverso”.
Ebbene, se diverso dovevo essere, tanto valeva esserlo in tutto.
Karate a tutti i costi e tutti i santi lunedì, mercoledì e venerdì
dalle 17 alle 18 e in qualche occasione anche fino alle 19.
Ancora adesso quando penso
a quei tempi il mio cuore ha un sussulto, erano anni di allenamento
molto intenso e severo, non c’erano mezze misure, o restavi,
o te ne andavi senza alcun rimpianto.
La palestra per come
la ricordo era un po’ piccola nelle dimensioni, quando si entrava
avevi uno sgabuzzino che fungeva da segreteria, poi un piccolo
corridoio che immetteva alle docce e al Dojo. Le docce ricordo
erano un po’ basse, era tutto piastrellato in mosaico colore
verde petrolio. Come ambiente era molto caldo si perché di veramente
caldo c’era solo quello, le docce, di sicuro, un giorno si e
uno no erano gelate.
Si entrava nel dojo in reverenziale
silenzio, ad attenderci c’era sempre questo gigante neanche
tanto buono, ma onesto, sincero e grande sia nell’aspetto che
nell’animo. Il Maestro mi ha aiutato, ha fatto in modo che capissi
i miei limiti che erano e sono tanti. Io ho un pessimo carattere
e quando non capivo o non volevo capire una cosa il Maestro
mi faceva ripetere e ripetere fino alla nausea una tecnica e
qualche volta ci scappava anche una tecnica “ poco controllata”.
Alcune volte avevo
la percezione che volesse provarmi, che volesse vedere se mollavo,
se mi arrendevo. Se sono ancora qui a raccontarmi dopo 26 anni,
un grosso merito lo devo anche a Bruno de Michelis.
Gli allenamenti erano abbastanza
pieni di tensione e di spirito. Alla base c'erano sempre gli
esercizi di riscaldamento precostituiti , se ben ricordo, da
1 minuto di saltelli, 20 flessioni sulle braccia e ancora
20 flessioni sulle gambe, gli addominali non si contavano perché
Bruno usava un metodo tutto suo e per spronarci diceva:” Addominali
e aggiungeva vediamo chi smette prima” e così ti ritrovavi a
non contare quanti ne facevi per non essere il primo a smettere,
qualche volta si vinceva e qualche altra perdevi spudoratamente,
forse per la digestione lenta. Poi si facevano una ventina di
giri della palestra dopodiché ci si poteva allenare. L’allenamento
era quasi sempre uguale: almeno una cinquantina di Oitsuki,
poi le parate e contraccolpo e infine i calci. Se andava bene
potevamo avere la soddisfazione del Gohon Kumite e del Sanbon
Kumite, visto il nostro livello. In corso eravamo in diversi
e di diverso grado , comunque tutte bianche ma con qualche striscia
nera alla cintura. In quel tempo non si usava la cintura gialla
e arancio. Poi facevamo Kata, quanti ne abbiamo fatti! ricordo
una lezione fatta solo di heian Shodan e Nidan, una lezione
estenuante ma alla fine tutti sapevamo eseguirli abbastanza
bene. Inoltre il Maestro prediligeva il Kumite ma a quello si
dedicava in special modo con le cinture superiori, per fortuna!
Il Maestro De Michelis era
molto esigente nell’apprendimento del Kata sosteneva che il
kata rappresenta il nostro patrimonio genetico, il nostro DNA.
De Michelis ci chiedeva di comprendere bene la differenza tra
Kihon e Kata nel senso che il Kata è Kumite con la mente contro
un avversario o più avversari armati e pericolosi.
Poche volte la lezione si
concludeva con gratificazioni, il Maestro era poco incline ad
avere parole di elogio e così te ne tornavi a casa sperando
di essere stato bravo ma senza saperlo veramente. Io dal canto
mio ero sempre insoddisfatto delle mie performance ma sapevo
in cuor mio che stavo migliorando se non altro sotto l’aspetto
mentale. Dovevi stare attento alle spiegazioni, alla gestualità
del Maestro e a quello che mostrava. Qualche volta sentivi chiamare
il tuo nome, e come a scuola, ti veniva chiesto di mostrare
quello che avevi capito.
Rarissime volte ho sentito
il Maestro dire a qualcuno:“ Oggi hai fatto una buona lezione”.
Qualche volta succedeva anche
che il Maestro si mischiasse agli allievi al momento del Kumite,
capitava così che te lo trovavi davanti e andavi subito in paranoia,
eri imbarazzato, impaurito da questo colosso, così se non facevi
del tuo meglio ti trovavi a subire i suoi attacchi penetranti
e se devo essere del tutto sincero succedeva anche che ti faceva
male ogni tanto per verificare se eri a all’altezza del suo
insegnamento. Il Maestro sosteneva
che la difesa doveva essere piena, robusta, ed essere in grado
quindi di scoraggiare un secondo attacco, entrava per
bene con la sua tecnica prediligendo il maegeri e tu non potevi
di certo contrastare la sua mole, la sua aggressività e la sua
tecnica precisa e penetrante. Questo ci faceva capire che fuori
della palestra non saresti mai riuscito a difenderti da un attacco
vero. Erano delle gran “belle” lezioni un pò audaci forse ma
ti davano una carica che te la portavi dentro per diverso tempo.
Era duro ma faceva per me,
non sentivo molto la stanchezza, sentivo solo il mio corpo che
si svegliava, si perché quando ti fa male qualche cosa o ti
manca qualche cosa, vuol dire che quella parte di te c’è, che
è presente, che è viva, ed io ero stremato ma felice.
E poi a casa o con gli amici
a parlare di come ci si sentiva e quasi tutti avevano a che
dire sui loro dolori addominali o gli ematomi sulle gambe, certamente
il Karate era anche divertimento, allegria gioiosa dello stare
assieme ad altri che avevano la tua stessa passione anche se
eravamo sempre legati dalla disciplina, o al rispetto che il
Maestro esigeva da tutti e a tutti i costi.
La disciplina per dire la
verità non era così ferrea come la descrivo, ma per mia formazione
mentale la interpretavo così.
Qualche anno dopo il Maestro
accorgendosi che ero ancora cintura bianca senza neanche un
Kyu mi chiese perché ogni volta che ci sono gli esami io non
mi iscrivevo. Lui sapeva il perché
ma voleva sentirselo dire. La verità era che non
mi sentivo pronto per questo passo, e avevo veramente paura
di fare brutta figura mi vergognavo un po’ anche perché la gamba
non mi permetteva di rimanere in equilibrio se non per qualche
istante, troppo poco per poter eseguire efficacemente (solo
dal punto di vista didattico e non certo dell’efficacia che
è tutt’altra cosa) sia Mawashigeri che Yokogeri Kekomi, sul
Yokogeri Keage e Maegeri ero già più “ bravo”, ma questi altri
due calci erano il mio incubo, quando calciavo le mie braccia
se ne andavano per i fatti loro “ un pò come adesso”, la mia
gamba di sostegno non mi permetteva di spingere con l’anca destra,
e quando calciavo con la gamba sinistra non riuscivo, come adesso,
a colpire con la parte esatta del piede.
Mi fece eseguire una trentina
di yokogeri e mawashigeri dopodiché mi promosse al grado di
cintura verde.
In seguito mi sono allenato
tre volte alla settimana con le cinture blu e marrone anche
perché più della metà dei miei colleghi aveva mollato. Con loro
c’era sempre da imparare, ho capito molto, ho compreso come
ci si disinnamora del Karate come ci si appassiona al Karate,
come si vive con il karate dentro e come lo si porta fuori dalla
palestra, nella vita familiare e nei rapporti con gli altri.
Io penso che il Karate in
Italia nei primi anni Settanta era una forma di avanguardia,
forse perché c’era la necessità da parte dei Maestri di formare
della gente a loro "pari" la cosiddetta “Vecchia Guardia”,
sarà perché il modello di formazione Giapponese imponeva delle
caratteristiche di allenamento poco consone alla nostra statura,
sta di fatto però che in quell’epoca si sono formati i grandi
del Karate Shotokan italiano, ed è grazie agli insegnamenti,
non solo tecnici, di un giovane Maestro giapponese arrivato
in Italia nel 1965 che l’Italia conquista il titolo mondiale
a Tokyo nel 1976. Era il Maestro Hiroshi Shirai.
L’Allenamento di li a poco
acquista una migliore qualità, è sempre duro ma si respira un’altra
aria, siamo tutti felici del risultato del nostro Maestro.
Per quanto mi riguarda il
karate di allora era molto duro e imponeva un tipo di allenamento
molto rigido, ripetitivo, un po’ come oggi, ma più rigido sotto
l’aspetto della disciplina e del rapporto con gli altri atleti.
In palestra a quel tempo non si poteva tanto andare sul sottile.
Se stavi attento, molto attento, tornavi a casa integro, altrimenti
correvi il serio pericolo di vederti con il naso un po’ più
grosso del normale Questo non mi spaventava, ciò che più mi
spaventava erano due cose: avevo paura degli ashibarai e del
problema di smettere.
Ho ceduto per un anno.
Si sa il tempo è prezioso,
e una volta chiarite le mie intenzioni sono ritornato, con grande
disappunto, ma con una certa felicità non espressa dal Maestro.
L’avevo si deluso, ma il tempo fa capire l’importanza del sentirsi
apprezzati per quello che si è. Questo è ciò che Bruno mi ha
fatto capire più tardi. Ancora adesso quando lo ritrovo per
le calli di Venezia lo saluto, come Maestro. Bruno De Michelis
resta per me sempre un Maestro di karate.
Avendo perso un anno mi ritrovo
ad essere allenato da un’altro Maestro. Incontro il Maestro
L. Puricelli ed è la mia rovina totale, lo seguo ancora!
Con Lui l’allenamento prende
subito un altra piega, è arrivato da poco a Venezia e forse
non conosce molto bene l’ambiente ma è bravo, lavora il suo
corpo come non ho mai visto fare a nessuno.
Ha una coordinazione impressionante.
Sin dall’inizio la sua pazienza non ha limiti, con lui arrivo
alla cintura blu.
Anche con Puricelli l’allenamento
è duro saltelli, flessioni sulle gambe, non ha alcuna considerazione
del mio stato fisico, non mi incita ad andare avanti come faceva
Bruno per lui sono un allievo come gli altri e come gli altri
devo eseguire in silenzio e imparare in fretta. Per Puricelli
tutti gli allievi hanno delle potenzialità, l’importante è tirarle
fuori a tempo debito.
La palestra aveva cambiato ubicazione. Adesso il CSKS si
era spostato in Campo S.M. Formosa, la palestra è enorme e molto
meglio organizzata, la sala di allenamento è a due stanze grandissime.
Finalmente c’è la sala degli attrezzi, i Makiwara non si contano
e quello che usa il Maestro è inamovibile. C’è una persona che
si allena sempre al makiwara e mi insegna ad usarlo nel modo
corretto, è Formenton, da lui imparo, o meglio, mi spiega come
fare per migliorare i calci, qui trovo Cipriani e da lui imparo
la forma del rispetto. Tanta gente, tante persone si sono fatte
carico di aiutarmi, non so il motivo di questo, ma a tutti devo
e voglio essere grato. Con il Maestro Puricelli gli allenamenti
sono un po’ più equilibrati.
Negli anni seguenti il Karate conosce la fama e diventa, a mio
dire un po’ commerciale, forse perché erano arrivati in Italia
gli oramai famosi “films cinesi e giapponesi sulle arti marziali”
che tanto hanno contribuito a far conoscere il Karate sotto
l’aspetto violento dell’arte. Quanta fatica si farà in seguito
per scrollarsi di dosso l’etichetta di Karate uguale Violenza!
Venezia è una città dove
non ci sono tante attività, in palestra siamo in tanti e bene
o male ci si conosce un po’ tutti. Il mio corso di cinture verdi,
blu e marrone è affollatissimo, il Maestro segue tutti ma devo
dire, che eravamo meno seguiti a livello personale. I “vecchi”
, abituati ad un intervento personalizzato, risentono di questo
e qualcuno si lamenta e lascia. Ritorneranno quasi tutti quando
finalmente capiranno l'importanza del karate al di la del proprio
ego.
Con il Maestro L. Puricelli
l’allenamento si fa interessante, siamo passati a fare Kumite
e allora l’applicabilità delle tecniche mi stimola ancor più
ma devo mollare un'altra volta.
Ho dei dolori alla colonna
vertebrale perché la mia gamba sinistra è più corta di quattro
centimetri e devo allungarla.
Nonostante la paura che questo
comprometta quell’equilibrio che faticosamente avevo quasi conquistato
mi sottopongo agli interventi richiesti, dureranno tre anni,
passano in fretta e il desiderio di ritornare alla mia passione
originale si fa improcrastinabile, nel frattempo il C.S.K.S.
aveva chiuso i battenti e il Maestro aveva cessato la pratica
del Karate.
Mi ritrovo così a ritrovare
il mio Maestro in una palestra piccola ma con un odore di sudore
che ancora oggi mi porto dentro e mi fa capire quanto ne dovrò
ancora versare.
E’ il posto giusto e la persona
giusta e anche il nome è interessante (Centro
Sport e Cultura).
Quante volte mi verrà chiesto se per cultura si intende cultura
fisica e io rispondo sempre allo stesso modo “Non c’è solo quella,
per nostra fortuna, c’è anche la Cultura con la C maiuscola”.
Allora mi fermo un po’ per seguire la lezione e con mia grande
sorpresa vedo tanti amici dei tempi passati in karategi.
Il Karate è diventato ancora
più tecnico, il Maestro ha fatto un salto di qualità e così
i suoi allievi. Io ritrovo Luciano, con il suo incomparabile
modo mi permette di tornare ad allenarmi ogni lunedì e giovedì
dalle 22 alle 23 di sera, un disastro, quando arrivo a casa
sono tutti a letto.
La prima sera di allenamento
mia figlia Beatrice, che non mi vede a casa per l’ora di cena,
chiede alla mamma: “adesso cosa facciamo, senza il papà siamo
sole” (che tenerezza, quando ne parlo), ma che gioia quando
sento che la mia famiglia comprende che, attraverso questa magnifica
arte, io mi realizzo e sono, cosa più importante, me stesso.
Non appartengono al mondo dei frustrati e questo è un gran pregio
che conta in una famiglia, perché il rapporto è sereno, perché
amo quello che faccio e non rimpiango il tempo che dedico alle
cose che più amo. Quanto ritorno sono felice, non sono represso
perché qualcuno o qualcosa è andato storto, nell’allenamento
si può avere un senso di frustrazione perché non si riesce a
superare il proprio limite ma nello stesso tempo è liberatorio.
Qualcuno ha detto che la
tecnica è solo tecnica ma io dissento in parte da ciò, la
tecnica è altro, noi non siamo robot, siamo esseri umani pronti
ad essere esaminati ed ad esaminare. La tecnica, se fatta
con il cuore, può senz’altro migliorarti come persona. Il nostro
corpo è limitato da uno spazio ma cuore e mente non si possono
contenere se non nei limiti che le persone stesse si impongono.
La tecnica è si un movimento prefissato ma è anche mente e cuore,
basta osservare da vicino i grandi Maestri.
In palestra ci si trasforma
un po’. In allenamento, siamo noi stessi, siamo e esploriamo
la nostra vera natura, il nostro modesto mondo si trasforma
in una totalità di sensazioni e di mondi non visitati fino ad
allora.
C’è un momento esatto in
cui si intuisce ma ancora non si capisce questo, è la molla
che ti fa continuare a provare e riprovare. In questo Puricelli
è grande, ti aiuta a comprendere le tue capacità e dove possibile
superarle attraverso l’allenamento e attraverso l’autodisciplina
che ti dimostra quotidianamente, giorno dopo giorno.
Questo io respiro in palestra
e la figura del Maestro aiuta in questo. Io imparo da lui, cerco
di emularlo, ma è necessario fare attenzione ad essere sempre
se stessi.
Il compito auto - formativo
passa, per forza di cose, attraverso un bravo Maestro che sappia
ricavare dall’allievo/persona che ha di fronte il meglio delle
sue capacità.
L’allenamento con il Maestro
L. Puricelli è diverso dagli standard. Nel frattempo la logica
dell’allenamento e dell’insegnamento si è un po’, solo un po’,
evoluta e modificata. Con L. Puricelli il metodo propedeutico
è diverso, l’allenamento è ancora più specifico, meno “cruento”,
non meno faticoso, ma più specifico.
Luciano esige, corregge,
spiega il modo corretto ma lascia, e questa è la sua dote, che
ognuno cresca con i suoi tempi, e i miei sono molto lunghi,
sono sempre un po’ restio a fare certe cose, ho come un blocco
mentale che non mi permette di dare il massimo di me stesso,
c’è sempre qualche cosa che si interpone tra me e la tecnica,
tra me e il mio modo di fare.
E’ il panico. E’ la sensazione
di non farcela, a fare questa cosa che mi piace, a farmi paura.
Comprendo che l’operazione ha in parte distrutto quello sprezzo
del pericolo che prima, forse per l’età o forse per le scarse
responsabilità accettavo meglio.
Ora sono marito, padre, e il farmi male pesa, quasi mi ossessiona,
ma continuo sperando che passi.
Una sera durante un allenamento
un compagno esegue un ashibarai proprio lì dove più la mia paura
si concentrava, la gamba, vengo colpito molto forte e la mia
gamba si gonfia in un modo spropositato, la paura che sia rotta
produce il mio primo vero Kiai. Cado, mi osservo, Luciano non
dice nulla, osserva e dice semplicemente: “non è rotta metti
ghiaccio”, chiedo di potermi assentare per andare al bagno,
viene concesso, mi viene la nausea ma arrivo e osservo l’acqua
fredda che rende la mia gamba bluastra, ma non è rotta, (non
sarei arrivato al bagno e Luciano sarebbe intervenuto, FORSE).
Con gran sollievo scopro che la gamba è lì, mi fa male, pulsa
ma fa ancora parte di me. In realtà tengo moltissimo a questa
maledetta gamba che ogni tanto mi fa tribolare e ricordare soprattutto
cose spiacevoli, ma quella sera era li ed era tutta intera.
Torno dentro, sono molto
arrabbiato e, come una animale ferito, toccato nel proprio intimo
da uno che non ha avuto rispetto della mia debolezza e perché
no del mio handicap. Non dico niente mi devo trattenere. Ancor
oggi ci alleniamo insieme e quando posso lo ringrazio di avermi
considerato degno del suo ashibarai. Questa esperienza mi ha
fatto capire molte cose: la prima è che quando si teme una cosa
prima o dopo capita di peggio, la seconda che non si devono
mai e poi mai sottovalutare le proprie capacità e sperare che
quando uno ha un problema lo compatiscano e lascino perdere
la loro occasione di portare una tecnica efficace.
Qualche anno dopo l’esame
da cintura marrone, esame durissimo, il Maestro chiede molto,
ma quando mi consegna il modello con l’esito favorevole sono
felice e molto soddisfatto. Credo di essere arrivato al massimo
delle mie possibilità. Siamo nel 1983.
Cambio orario si passa dalle
21 alle 22 Beatrice ha capito e comunque non è più sola, ha
un fratellino, Enrico.
I compagni nel frattempo
sono cambiati, più adulti, più consapevoli della qualità dell’insegnamento,
ma qualcosa cambia ancora, ho detto prima che ci si può anche
disinnamorare del Karate. Qualcuno se ne va ma io, consapevole
delle mie possibilità, voglio la Cintura Nera e dentro di me
si rafforza la convinzione che posso fare e dare di più a me
stesso alla palestra e al mio Maestro.
Sono gli anni di maggiore
impegno per la mia mente e per il mio corpo. Nonostante il lavoro,
la famiglia e le ovvie preoccupazioni di tutti i giorni, la
mente è sempre con il Karate. Mi impongo l’allenamento anche
quando raggiungere la palestra diventa difficile (io abito in
un isola neanche tanto servita dai mezzi pubblici) ma, quando
entro in palestra, sentendo l’odore di fatica dimentico tutte
le difficoltà.
L’allenamento da marrone
ritorna ad essere più duro, ma sempre più interessante e si
comincia anche a frequentare qualche stages, faccio la conoscenza
del Maestro Shirai e così capisco come il Maestro Shirai abbia
contribuito a portare il Karate Italiano e i suoi tecnici ai
livelli attuali.
Il Maestro Shirai è velocissimo,
esegue tecniche con grande maestria ma il mio livello tecnico
mi impedisce di capire fino in fondo tutto quello che ci propone,
ma gli stage sono importanti e io da allora, possibilità o no
ne perdo pochissimi. Sono sempre in prima fila, penso da sempre
che essere in prima fila possa aiutarmi a meglio comprendere,
meglio vedere e gustare quello che viene proposto e poi non
ultimo il fatto che essere li, in prima fila, voglia dire: “
Ecco, sono qui, guardami”. Il Maestro guarda, osserva e si rende
conto di cosa fai, come lo fai e cosa più importante se migliori
ogni volta che ti vede. Forse la mia è presunzione, ma io penso
così.
Gli stage mi danno moltissimo
e in palestra questo si nota, la vicinanza con il Maestro Puricelli
durante i vari viaggi mi da modo di dialogare e questo mi aiuta
a capire e mi stimola a studiare in modo approfondito la tecnica,
il Kata e il loro lato oscuro.
Passano altri due anni, muore
mio padre nel Maggio 1985, mia madre è distrutta, io vivo in
una sorta di non tempo. Le aumentate responsabilità , sono figlio
unico, mi fanno un po’ paura, dimentico per qualche istante
il Karate e la palestra, ma tutti mi sono vicini in questo importante
momento formativo della mia vita. Quanto ho pianto e adesso
che sto scrivendo queste stupidaggini i miei occhi si inumidiscono
a quel ricordo. Quel fatto ha dato una spinta basilare alla
mia formazione anche perché ho capito che come essere umani
abbiamo pochi anni a disposizione per realizzare quel poco che
vogliamo ottenere da noi stessi e l’unico modo per non morire
è trasmettere, lasciare una traccia, dare qualcosa di se stessi
agli altri: qualcosa che continui a vivere anche dopo.
Mi sto preparando per la
cintura nera, mi sembra impossibile, io proprio io cintura nera,
ma supero l’esame, chiedo al Maestro Marangoni un giudizio,
mi fa ancora una volta capire che non devo portare la forza
sulle spalle ma sul hara come mi dice sempre Luciano. Sono molto
soddisfatto e in palestra le cose migliorano per me, ma non
dimentico che se sono quello che sono lo devo al mio Maestro
e ai miei colleghi che mi hanno aiutato in questo.
Devo essere sincero fino
in fondo, devo molto a molte persone e così il primo giugno
1986 sono cintura nera.
Gli allenamenti nel frattempo
mi aiutano a capire ancora di più che questa è la mia strada.
Da cintura nera devo allenarmi in modo diverso e il Maestro
è chiaro in questo e, facendo l’esempio dello scalatore lo fa
capire in modo profondo. Prendo coscienza di questo e mantengo
l’impegno con me stesso di non mollare perché “sono arrivato”.
Per la verità secondo me devo ancora partire, ma questa cintura
nera mi gratifica, mi piace e mi esalta. Devo stare attento
a questa sensazione devo controllarmi, posso sempre scivolare
dalla “vetta” sulla quale sono arrivato e dalla quale mi appresto
a ripartire.
Mi rendo conto che devo fare
ancora più attenzione, allenarmi di più e che il karate dura
tutta la vita e forse va oltre la vita di una persona, devo
dare l’esempio perché mi sto preparando per il secondo dan e
Puricelli mi dice che non è semplice, che non è una passeggiata
e che me lo devo meritare forse più degli altri aggiunge, e
aggiungo io. Beh ci provo.
Seguo le lezioni, non manco
quasi mai ad un allenamento, un grosso aiuto lo traggo proprio
da questa mia assiduità agli allenamenti ed agli stages che,
sempre più mi vedono partecipe. Frequento il corso regionale
del Maestro Shirai, imparo, lui impara a conoscermi, mi valuta,
e mi aiuta.
In palestra il Maestro si
fa più esigente, vuole e mi sprona a dare di più.
Il kihon diventa il mio cruccio
ma attraverso questo tipo di allenamento miglioro.
Sento che lo spirito si rafforza
ed è l’autodisciplina a far ciò. Coltivare lo spirito è difficile
ma non impossibile ma si deve essere sinceri con se stessi,
chiedersi:” hai dato il massimo?” e questo lo senti dentro.
Il 2 ottobre 1988 sono secondo
Dan, e mi viene l’idea che forse io debba andare avanti farò
l’istruttore.
Inizio inoltre a viaggiare
con il mio Maestro. Andiamo agli stages e mi porta ad uno stage
organizzato dalla WKSA del Maestro Kase. E’ sempre più difficile
stargli dietro ma quanta soddisfazione lavorare con lui.
Il Maestro Kase trasmette
il suo sapere attraverso la tecnica e attraverso i suoi occhi
che sono il massimo dell’espressività. Il suo insegnamento si
fonda su un tipo di trasmissione da cuore a cuore, da mente
a mente. Parla poco il Maestro Kase, ma quel poco che dice fa
capire l’importanza del Ki, del Kime, del Cuore. Continuo a
pormi la domanda: “ è il Karateka che fa il Karate o il Karate
che fa il Karateka?”. La risposta è quasi sempre la stessa:”
il Karate è si tecnica ma anche cuore, tanto cuore e tanta passione”.
Quando il Maestro Kase parla del superamento della tecnica forse
si riferisce proprio a questo.
E io continuo la mia formazione.
Espongo al mio Maestro l'intenzione
di insegnare e subito dice di si. Non sarà una passeggiata aggiunge.
Quando tiro fuori gli appunti
di quei giorni scopro sempre cose che, forse, avevo dimenticato.
Il corso non è molto duro come allenamento, ma viene richiesto
il massimo impegno e la massima frequenza, I Maestri ci fanno
capire l’importanza di una tecnica pulita, abbiamo come docenti
il Maestro Marangoni, Michielan, Zannin, Boffelli e lo stesso
Puricelli.
L’impegno è totale e incondizionato,
noto la preparazione non solo tecnica degli insegnanti e da
loro intuisco e capisco in seguito la loro impostazione mentale,
il giusto atteggiamento, di come si debba migliorare in solitudine
dedicando la maggior parte del tempo alla propria formazione,
al proprio auto miglioramento. Ci provo ma è dura allenarsi
da solo, senza una guida, senza un tempo specifico, è difficile
capire i propri difetti e i propri pregi senza una o più persone
con cui confrontarsi, comunque sto provando ancora una volta
a capire i miei limiti e le mie capacità.
Luciano mi invita a seguire
come assistente le lezioni di un altro allievo. Scopro così
che gli allievi accettano di buon grado la mia presenza e anche
il mio modo di insegnare. Capisco i motivi, adesso dopo sei
anni, comprendo che sono intuitivo, creativo e sprono ma non
frustro le persone. Forse vedendo come io eseguivo le tecniche
gli allievi si rincuoravano e capivano che anche un istruttore
può sbagliare ma fa del suo meglio per migliorare. Non nascondo
ai miei studenti il fatto che il mio è ancora un percorso lungo
prima di arrivare alla “perfezione tecnica” che viene richiesta,
ma sottolineo che se io riesco a fare un Yokogeri Kekomi possono
farlo altrettanto bene loro.
Quando si insegna si rischia
di avvalorare la propria tecnicità invece si deve valutare
e comprendere la fatica degli altri. Insegnare ti rende più
vulnerabile, devi sempre stare in guardia ed è stato questo
a farmi comprendere che l’orizzonte è molto vasto.
Mi sono avvicinato all’insegnamento
con grande determinazione ma anche con paure e timori di far
male il mio lavoro. Con grande umiltà svolgo il ruolo che mi
sono “forse” imposto.
Le lezioni si susseguono
giorno dopo giorno sempre sotto l’occhio attento e vigile del
Maestro che mi consiglia, mi verifica negli allenamenti e mi
sollecita a fare meglio e a studiare di più.
Io eseguo non solo perché
me lo dice lui, ma perché è giusto così.
Non
puoi insegnare falsità o menzogne, non puoi pensare di educare
le persone se prima non educhi te stesso alla disciplina, alla
tecnica, alla vita e ai rapporti con gli altri.
Non
puoi barare quando insegni, vieni sempre scoperto ed allora
è brutto, dai una immagine del Karate, della Palestra, di quelli
che ti hanno aiutato, sbagliata e falsa ed allora la qualità
dell’insegnamento scade.
Non sono un tecnico che porta
gli allievi/persone all’esaltazione, anzi continuo a pensare
che il Karate, attraverso la tecnica e, con un giusto modo di
porsi, debba migliorare le persone e migliorando le persone
si modificherà la società, la si renderà migliore. Verrà
così svolto anche quel ruolo sociale che ognuno di noi dovrebbe,
con i propri modesti mezzi svolgere. Ed è così che, non
senza difficoltà, nell’agosto 1990 mi viene certificato il grado
di Istruttore.
Il ruolo di Istruttore mi
impone anche nuove responsabilità non solo nell’insegnamento
ma anche nell’allenamento, trascinare il gruppo non è cosa facile,
svolgere il ruolo, se pur inconscio di Sempai, non e semplice,
mi organizzo e mi impongo un comportamento che è già in parte
mio.
STORIA
DI VITA E INSEGNAMENTO
La prima lezione, il primo
saluto l’ho già ricevuto ma ora ho ufficialmente il primo corso.
I primi allievi che ti chiamano Sempai, "Sensei",
mi aiutano anche se già molti li conosco. Trovarmi solo di fronte
a queste persone, mi ha fatto vivere un momento di panico da
non essere completamente in me quando ho detto Yoi e ho dato
i primi comandi a quella che sarebbe stata la loro lezione "più
dura" . Non è stato un disastro ma una mezza vittoria.
Erano esausti, ma nel sentire le loro voci e i loro commenti
nello spogliatoio il mio cuore si è riempito di gioia. Quando
sono ritornato a casa ero talmente elettrizzato dall’esperienza
che ho fatto fatica ad addormentarmi.
Alla lezione successiva ero
meno teso, più rilassato mi sentivo già più a mio agio, la lezione
si è svolta “normalmente”. Poi quando sono riprese le iscrizioni
ho avuto diversi allievi e ne sono stato felice. Il Maestro
Puricelli è soddisfatto ma io ancora oggi mi chiedo il motivo
del successo, un allievo tra una pizza e l’altra mi da qualche
risposta ai perché: “ godi la nostra stima perché sei te stesso
quando insegni, e se dobbiamo essere sinceri sei bravo” è la
prima volta che qualcuno del mondo del Karate mi dice che sono
bravo. Ma la cosa che più mi fa felice è quel “sei te stesso”
da allora sono un Istruttore.
Il rendere partecipe la gente,
il formare persone migliori, il capirle e considerarle, non
solo per la loro abilità tecnica, questo rende una persona migliore.
Si, il Karate continua ad
aiutarmi, a migliorarmi, a essere me stesso per la quasi totalità
del tempo che trascorro fuori dalla palestra. In famiglia noto
un grande miglioramento generale, la qualità del mio tempo diventa
migliore e ancora più serena è l’atmosfera che si respira e
che mi auguro duri tutta la vita.
Torniamo al Karate. Il mio
metodo di insegnamento lo devo verificare sul campo lezione
dopo lezione, scopro con dolore che l’esperienza dell’insegnamento,
malgrado abbia un Maestro come specchio, te la costruisci sulle
spalle dei tuoi allievi che ancora non comprendono perché gli
fai fare un’ora di oitsuki o un ora di kata.
Cerco, con il passare del
tempo, di personalizzare e pianificare l'insegnamento che fino
a quel momento avevo fatto ma che non avevo mai razionalizzato.
In questo caso la carta vincente è la verifica su se stessi
che può farti capire molte cose.
Quando inizi un corso di
principianti non devi chiedere la luna, devi capire e interpretare
i messaggi che ti vengono mandati, devi decifrare il corpo dell’altro,
lo sguardo, la voce, l’atteggiamento con il quale si accingono
a provare per la prima volta qualche cosa di nuovo.
Ciò che prediligo è far comprendere
per prima cosa che cosa è il Karate Do “ Un arte di autodifesa”
e come tale deve essere concepito come rafforzamento del proprio
corpo e della propria mente, con l’allenamento costante. In
effetti sono del parere che nelle arti marziali non serve avere
un corpo perfetto per ottenere risultati soddisfacenti ma bensì
una costanza notevole.
Molte delle mie lezioni con
i principianti si basano sull’atteggiamento mentale da assumere
durante l’allenamento, sulla ripetizione del gesto e le sue
forme, pugni, calci, parate che si basano sulla dinamica del
movimento con gli spostamenti adeguati all’azione di risposta
all’attacco o all’attacco in sé, sulla coordinazione che deve
essere via via migliorata. Credo che in questo modo si possa
portare l’allievo ad interiorizzare e far sua una tecnica, certo
ci sono delle difficoltà in questo ma sono sempre superabili
con la tenacia e la costanza. In effetti si è liberi di pensare
che il 70% del livello di un allievo dipende dal suo impegno,
e solamente il 30% dalle sue doti.
Per il Kata vale quanto detto
in precedenza: atteggiamento mentale, comprensione delle tecniche
e degli spostamenti, relazione tra le tecniche e la loro applicazione,
il tempo del kata.
Quando qualche allievo mi
chiede che cos’è il kata mi tornano in mente le mie di domande,
la risposta però e sempre quella: ”è il patrimonio genetico
del karate, il nostro DNA.”
Spiego loro che solo attraverso
la comprensione del kata noi possiamo immaginare un combattimento,
in effetti gli antichi hanno volutamente nascosto nel kata tutta
lo loro arte di combattimento, il kata non è una danza è un
combattimento e gli allievi devono capire che questa è la linea
di partenza del karate d’oggi. Do molto spazio nelle mie lezioni
al kata, i bambini ad esempio ne sono attratti, impegnandosi
moltissimo in questo.
Nel Kumite, tutti si dimostrano
moto interessati a questa parte del karate, fondamentale per
un arte di autodifesa, ma faccio comprendere loro che il karate
non è combattimento inteso nel senso di procurare ferite o la
morte dell’avversario ma inteso come autodisciplina come discernimento
tra istinto di conservazione e giusto equilibrio, ripeto sempre
loro che quando il Maestro Funakoshi diceva :” Karate ni sente
nashi” si riferiva al fatto che nel karate non c’è vantaggio
ad attaccare per primi ma anche che, secondo me, non ci si
deve mai trovare nella condizione di......
Tutto questo deve passare
per forza di cose attraverso metodologie semplici e di facile
comprensione, gli esempi nei primi momenti aiutano molto basta
cercarli e adattarli alla situazione molte volte però vale l’esatto
contrario mostrare una tecnica e verificarla all’istante può
aprire la mente è la cultura del fare che conta nel Karate in
effetti si dovrà far capire che il fine del karate non è sempre
vincere ma l’idea di non perdere deve essere sempre presente
come la ricerca del proprio perfezionamento.
Ritornando con i piedi per
terra l’insegnamento della posizione è basilare. In effetti
nessuna tecnica può essere efficace se manca la posizione. Si
deve far comprendere all’allievo che il Karate si pratica quasi
sempre in piedi, non deve essere confuso con la lotta, il Karate
permette l’uso dei pugni e dei calci e pertanto una posizione
forte è la base per portare tecniche forti, veloci ed efficaci.
La posizione deve inoltre
essere stabile e pertanto l’allievo dovrà comprendere che per
essere stabile la posizione dovrà avere una base larga. Potrebbe
sembrare semplice far capire queste poche cose, ma ci vuole
preparazione, esperienza e tanta pazienza.
Un esercizio che mi serve
per far comprendere questa cosa sta’ nel far camminare l’allievo
su un manico di scopa e poi su una tavola molto larga e comoda
in questo modo capisce l’importanza di una base larga. Ci sono
diversi modi di stare in piedi nel karate. La più naturale riguarda
la posizione “Shizen-tai”. In questa l’allievo non ha
nessuna difficoltà per applicarla in quanto è una posizione
naturale. Il “Zenkutsudachi“ è già di più difficile applicazione.
In effetti il principiante ha delle difficoltà a padroneggiarla
in quanto non la sente naturale. Insisto molto nel dire che
devono sentirla comoda e trovarsi a proprio agio nello
zenkutsudachi perché dovranno farlo per sempre, fintanto che
faranno karate, e pertanto è meglio che la imparino subito.
Per allenare la posizione a puntello si deve far comprendere
che il peso deve essere distribuito principalmente sulla gamba
anteriore ( 60%) senza sottovalutare la spinta della gamba posteriore
(40%) , mi servo sempre di un bastone per questo esercizio facendo
appoggiare il ginocchio anteriore dell’allievo al bastone che
avrà come base la base dell’alluce del piede anteriore in questo
modo faccio comprendere la posizione del ginocchio e l’importanza
della muscolatura necessaria per tenere il peso della posizione
che deve essere leggermente spostata in avanti.
Ci sono poi gli spostamenti
in zenkutsudachi e per questi faccio eseguire degli spostamenti
come se camminassero sulle rotaie. Facendo portare prima il
peso su una gamba e posi sull’altra quindi riaprire la posizione,
che non dovrà superare la larghezza dei fianchi, il tutto deve
essere eseguito senza alzare la posizione e mantenendo le anche
alla stessa altezza e i talloni appoggiati a terra. In questa
posizione inizio di solito a far capire quali sono le fasi per
eseguire una tecnica “efficace” la rotazione delle anche che
dovranno essere aperte nella parata e chiuse nell’attacco.
Per quanto riguarda il “Kokutsudachi”
la procedura è la stessa solo che l’allievo in questo caso deve
comprendere che si tratta di una posizione semi frontale e che
il peso in questo caso poggia principalmente sulla gamba posteriore
e che i talloni devono mantenere la stessa linea;
L’uso di pugni e calci nel
karate è implicito e pertanto chi inizia a praticare si aspetta
l’insegnamento di tecniche che investono queste parti del corpo.
Al principiante faccio sempre presente che in tutte le tecniche
di karate sia di braccia o di gamba c’è la tecnica e il suo
opposto “Hikite”. L’allievo deve comprendere che quello
che va deve ritornare e che sempre al momento dell’impatto il
corpo deve essere totalmente contratto. Contrazione e decontrazione
sono aspetti che si devono chiarire fin dall’inizio altrimenti
l’allievo può pensare che il corpo deve essere sempre contratto
durante la tecnica. Questo è un aspetto che non si deve sottovalutare
nell’insegnamento, essere chiari è un dovere per tutti. Far
strisciare l’avambraccio e il gomito lungo il karategi
può aiutare a comprendere che il gomito non deve uscire da una
linea diretta al bersaglio e in questo aiuta la rotazione del
pugno che dovrà essere eseguita all’ultimo istante, se il pugno
ruota prima dell’impatto il gomito uscirà dalla traiettoria
ed allora la tecnica di pugno sarà debole.
Per l'hikite basta far colpire
all’allievo qualche cosa dietro il suo fianco in questo modo
potrà iniziare a capire che nel karate si usano anche i gomiti.
Rimane comunque punto fermo che la maggior parte delle tecniche
di braccio usano una traiettoria diretta verso il bersaglio.
Per i calci, superato il
primo momento di imbarazzo, faccio presente le mie difficoltà
a mostrare i calci nella loro esecuzione rallentata e pertanto
per far questo trovo un appoggio. Per i calci vale quanto detto
per le tecniche di gamba con la sola differenza che nel principiante
le gambe sono un altra storia, non si è abituati a tirare calci
se non ad un pallone, portare il ginocchio al petto è già un
impresa, far scattare il ginocchio per il Maegeri è un disastro.
Importante è farli sentire sicuri. Facendoli appoggiare al muro
od a un compagno si ha già un primo risultato. Di solito faccio
così e preferisco far lavorare la persona partendo dalle sue
capacità. Individuando l’allievo che esegue bene una tecnica
lo si può proporre agli altri in modo da sviluppare anche una
sana competizione fra allievi.
Rimane comunque cardine primario
la ripetizione del gesto il più corretto possibile tollerando
l’errore e correggendolo gradatamente senza farlo pesare all’allievo
che dovrà così trovare sicurezza nell’esecuzione della tecnica
e imparare dai propri errori.
Qualche volta i miei allievi
dicono che allenarsi con me è duro e anch’io penso abbiano ragione,
ma non posso rinnegare ne dimenticare il mio percorso formativo.
Devo inoltre dire che molto
mi è stato dato dal mio Maestro.
La metodologia del Maestro
è abbastanza complessa e ancora adesso mi stupisco di come riesca
a mettere assieme le parti del programma che ci viene proposto.
Spessissimo faccio dei paragoni fra il mio modo di insegnare
e il suo, scopro che siamo diversi, ma è necessario tendere
ad essere uniti nella diversità.
Con Puricelli non si riesce
subito a capire lo scopo, anche se lo enuncia in diversi modi
la comprensione o forse l'applicazione di quello che chiede
è spesso difficile. Ci si scontra sempre con la propria mente,
il proprio corpo e la propria concentrazione. Puricelli chiede
tacitamente una fatica "scientifica" e forse adesso
riesco a capire un po quello che intende: sentire che il proprio
corpo riesce a permettere che l'energia si manifesti attraverso
la tecnica.
La sua metodologia d'insegnamento
è semplice e complessa nello stesso modo perché molto raffinata.
La conferma deriva dal fatto che, anche se ci viene chiesto
di eseguire una "tecnica semplice", nella maggior
parte delle volte non si riesce ad avere quella precisa sensazione
di aver fatto il possibile per renderla efficace.
Nella semplicità del gesto
c'è tutto il sapere del Maestro. Un sapere in costante evoluzione
in costante ricerca di qualcosa di estremamente sintetico e
lucido.
Il mio Maestro non pensa
solo alla tecnica, per lui l'importante è che i suoi allievi
crescano in modo sano, che si impossessino delle chiavi di lettura
sia della tecnica che della vita, dei rapporti con la società
e con gli altri. Non basta il solo gesto tecnico devi anche
dare delle risposte il più esaurienti possibili ed allora ti
devi informare e interiorizzare ancora di più le tue conoscenze.
La tecnica che esprimo non
è poi tanto scarsa come credevo, mi sento bravo forse per la
prima volta. Questo mi fa bene e mi sprona sempre di più ad
andare avanti e Luciano mi aiuta come sempre a capire, capire
cosa devo fare, come devo insegnare e cosa devo insegnare. Oramai
sono 22 anni che stiamo assieme e anche con lui il rapporto
si è trasformato, siamo diventati amici da parte mia, lui è
sempre enigmatico con me, dice e non dice. Come mio padre non
ti dice mai ti voglio bene oppure sei bravo, ma lo so, lo sento
cosa pensa di me. L’intesa c’è, non è dichiarata, ma c’è e la
vivo serenamente.
Un amico d’infanzia che mi
conosce molto bene dice che mi vede sereno, equilibrato. E’
vero sto bene perché sento che sto facendo cose importanti forse
le più importanti della mia vita, sto insegnando ai miei figli,
ai miei allievi, ai miei amici come diventare delle persone
migliori attraverso l’esempio di vita e attraverso la tecnica.
Certo il Karate rende migliori ma questo forse è intrinseco
ad ogni attività sportiva, ma l’Arte della mano vuota del Sud
è una gran cosa che investe lo spirito e lo spirito è infinito.
Mi sono impossessato abbastanza
bene dell'insegnamento. Le difficoltà più grosse le ho avute
quando in palestra si sono presentati i bambini, fino ad allora
avevo insegnato solo ad adolescenti e adulti ma non avevo mai
avuto un corso di bambini. Li ho tuttora, io e Puricelli ci
facciamo sempre delle risate quando gli dico che non ce la faccio
più.
Ho poca pazienza con i bambini,
sono capricciosi, vogliono sempre giocare fanno, passatemi il
termine, un casino bestiale e mi sembra che l’immagine della
palestra venga compromessa ma non è proprio così alla fine.
Con i bambini devi modificare completamente il tuo modo di agire
e di fare karate. Il Karate non è costrizione non è plagio,
il Karate è liberazione da molti stereotipi che questi giovanissimi
hanno attraverso i moderni mezzi di comunicazione, ed allora
devi per forza inventare, applaudire e giocare con loro e a
questo punto il karate diventa gioco e complicità del fare.
Gioco di squadra, gioco individuale
non devo permettermi di guardarli dal mio livello ma devo portarmi
al loro e così qualche volta ridivento bambino giocando e qualche
altra volta, raccontando e parlando dei miei tempi, come facevano
i nonni con i loro nipoti, giochi che si usavano allora, qualcuno
non sa neanche che cosa é una fionda, paragone che uso per far
capire come si prepara una tecnica efficace. Con umiltà tento
di farmi capire, è difficile, alle volte devi anche essere duro
e questo diventa duro anche per me anche perché con due figli
da educare devo sempre scoprire il modo per poterli seguire
al meglio. Come per l’aquilone, talvolta si deve tirare il filo,
talvolta lo si deve allentare. Se lo si tira troppo, o troppo
poco, l’aquilone cade e non è quello che desidero, loro vogliono
volare. Devono diventare grandi e prepararsi positivamente alla
vita.
Con i bambini ho imparato
la pazienza, sono bravi e glielo dico ed allora tutti in coro
mi invitano a osservarli: “ Maestro così va bene? Sono bravo?
“ a quel punto dici loro siete bravissimi anche se non
è proprio la verità per tutti. Sono bravi nello sperimentare
e nel provarsi.
Sempre con i bambini riesco
a capire meglio l’autocontrollo. Ce ne vuole tanto soprattutto
con i genitori: ” il mio non impara, a scuola è un disastro
non ascolta” e io dal canto mio ribadisco che forse a scuola
non si impegna abbastanza o non viene sufficientemente riconosciuto,
i bambini al giorno d’oggi vogliono qualità in quello che fanno
e non riconoscendola non si impegnano, vogliono stimoli che
non siano i soliti. I bambini
vogliono vivere ed essere partecipi alle cose. La società sembra
faccia molto per accontentarli ma in realtà falsa il senso vero
delle cose, non si dialoga più tanto, c’è sempre la necessità
da parte dei genitori di delegare altri all’educazione, alla
comprensione, all’insegnamento, non c’è più tempo da dedicare
a questi bimbi che diventeranno gli adolescenti di domani e
dovranno essere forti per non correre il rischio di imboccare
strade sbagliate. Un giorno leggendo un libro sul karate
ho sottolineato questa citazione: “Il
Generale Wellington aveva detto a Napoleone I° “ La battaglia
di oggi può essere vinta sul terreno di gioco della scuola del
nostro paese”. Questa frase deve essere compresa
come una massima importante sugli aspetti dell’insegnamento
ai bambini e non solo. Nell’educarli al futuro si deve trovare
un equilibrio tra severità e gentilezza senza mai permettersi
il lusso di non essere severi con se stessi e se per caso si
commettono, come è logico succeda, degli errori si deve chiedere
scusa e come dice ultimamente il Maestro Shirai “ pago pegno”
mostrando un kata o una tecnica. E’ giusto.
I ragazzi ora sono più grandi
e migliorano, hanno preso coscienza delle loro qualità e capacità,
mi ascoltano di più ed eseguono le tecniche come richiesto.
Certo c’è sempre il gioco ma, adesso si lavora di più, senza
mai dimenticare che sono bambini pertanto con l’attenzione che
il caso merita. Devo fare attenzione e dare come sempre il meglio
di me. Ho scoperto che con i bambini non puoi sempre preordinare
l’allenamento e qualche volta sei costretto ad improvvisare
qualche cosa di diverso.
La mia funzione di insegnante
passa anche sotto il punto di vista dei rapporti diretti con
gli allievi. Quando non vedo un allievo telefono per capire,
se sta male, se deve studiare o se c’è qualche problema.
Una brutta esperienza l’ho
avuta con un allievo , uno dei primi che ha mollato mi sono
sentito morire dentro, un mucchio di dubbi mi si sono affacciati
alla mente. E’ bruttissimo perdere un allievo, lo ho scoperto
sulla mia pelle e penso a quei Maestri che si vedono traditi
così come mi sono sentito io.
Mi viene in mente il mio
primo Maestro quando non mi ha più visto avrà avuto anche lui
questa sensazione? Sono dispiaciuto ma anche questo aiuta a
capirsi meglio. Altri hanno mollato e ogni volta ci sto male,
non mi ci voglio abituare.
Puricelli una volta ha detto
che quando riesci a far capire ad una persona che quello che
sta facendo non gli piace, devi essere felice, perché hai aiutato
una persona, un allievo, a capire se stesso e quello che vuole
fare, io mi ci devo ancora abituare e penso di avere una ulteriore
responsabilità in questo. La “formazione” continua.
Nel Agosto del 1990 divento
3* Dan. Anche se mi espongo alla valutazione adesso mi sembra
che niente e nessuno possa fermarmi, mi sento invulnerabile,
ma devo stare attento molto attento a questo senso di onnipotenza
che sta dentro di me, devo ancora lavorare per non permettere
al mio ego di prendere il sopravvento, faticosamente lo controllo
e allora mi scopro umile.
L’allenamento con il mio
Maestro mi fa capire questo, e ogni volta che metto il Karategi
mi rimetto in discussione, scopro che, si sono migliorato, ma
che la strada da fare è ancora lunga, difficile e piena di pericoli.
Il Karate è un combattimento
dove è necessario esercitarsi con coraggio ma anche con perseveranza,
umiltà e sincerità. In sintesi il Dojo Kun ha ancora molto da
trasmettere e da insegnare a tutti. Non ricordo chi fosse ma
qualcuno ha scritto: ”L’uomo
comune si interessa al profitto, l’uomo nobile al dovere”.
Condivido in toto queste
parole anche se non è facile essere sempre umili, sinceri e
coraggiosi, anche se il perseverare comporta grossi sacrifici
che spesso sono anche i sacrifici di altre persone.
L’insegnamento per me è diventato
importante e sento la necessità di ricevere la certificazione
dell’essere Maestro ma mi pongo sempre il dubbio, sarò all’altezza
che questo comporta? Certo, il mio non è stato un percorso facile
ed è anche per questo che voglio provare. Voglio, ancora una
volta, sperimentare su me stesso se sono all’altezza.
Le tecniche
e l’allenamento nel Karate-Do:
Nel parlare d’allenamento
nel karate si deve, per correttezza, chiarire di che cosa si
vuol parlare. In effetti, vediamo che nel karate si sta vivendo
una vera e propria dicotomia tra diversi aspetti:
1.Moderno;
2.Sportivo;
3.Tradizionale;
4.Sport da combattimento.
In questo caso le tecniche
qui trattate riguarderanno esclusivamente il Karate Tradizionale.
Per arrivare alla “conoscenza”
del karate si deve obbligatoriamente passare attraverso lo studio
della tecnica, ed in prima analisi c’è lo studio della posizione.
Le principali posizioni
del karate-Do sono:
|
Shizen-tai
|
posizione
naturale, include le posizioni Musubi-dachi, Heisoku-dachi,
Hachiji-dachi; |
Zenkutsu-dachi
|
Posizione
Frontale il peso è distribuito al 60% sulla gamba anteriore
|
Kokutsu-dachi |
Posizione
basata sulla gamba posteriore il peso è distribuito per
il 70% sulla gamba posteriore |
Kiba-dachi
|
Posizione
del fantino il peso è distribuito in modo eguale sulle
due gambe e i piedi sono paralleli tra loro |
Shiko-dachi
|
Posizione
quadrata come per il kibadachi con la sola differenza
che i piedi in questo caso sono rivolti verso l’esterno
|
Fudo-dachi |
Posizione
radicata |
Nekoashi-dachi |
Posizione
del gatto |
Sanchin-dachi |
Posizione
a clessidra |
Si può comprendere, dal gran
numero di posizioni, che ci vorrà un allenamento specifico per
ognuna. L’allenamento delle posizioni serve inoltre a rinforzare
la parte inferiore del corpo al fine di sostenere e incrementare
la velocità d’esecuzione delle tecniche. Lo studio della posizione
porta inoltre a considerare un altro aspetto molto importante
nella tecnica di karate la rotazione delle anche.
La rotazione delle anche
nel karate equivale alla potenza della battuta nel baseball.
Molta importanza è data all’apprendimento
di questa dinamica, ad esempio alcuni metodi d’allenamento per
la rotazione dell’anca sono:
Da posizione zenkutsudachi aprire l’anca in questo modo si può
definire questa postura come “ hanmi anca aperta”, ruotando
i fianchi in posizione frontale di 45 gradi chiudere l’anca.
Punto importante è mantenere lo stesso livello dell’anca nell’eseguire
questo movimento. Quando ci si è impadroniti di questo movimento
si può iniziare ad aumentare gradatamente la velocità delle
tecniche.
Da posizione Kokutsudachi spostando lateralmente la gamba anteriore
portare il peso sulla gamba anteriore, quindi spingendo con
forza la gamba posteriore in avanti far scattare l’anca in avanti.
Al contrario tirando forte con la gamba posteriore portare l’anca
in posizione hanmi la gamba anteriore segue il movimento.
Le tecniche di karate comprendono inoltre tecniche di braccio,
mano e gomito Anche in questo caso ci sono diversi modi di usare
le mani, diverse forme secondo la circostanza. Nel karate-Do
si usa dire: ” mani e piedi come spade” in sintesi le parti
del corpo atte a difendersi o colpire dovranno essere rinforzate
attraverso l’uso di attrezzi specifichi del Karate come il makiwara
e il sacco. Se non si rinforzano queste parti del corpo sarà
facile che, una volta raggiunto il bersaglio, si feriscano.
Le
parti della mano chiusa più usate per colpire il bersaglio
sono: |
Seiken |
Pugno diretto frontale |
Nakadaka ken |
Pugno con la nocca del
medio |
Kentsui |
Pugno a martello |
Ipponken |
Pugno con una sola nocca |
Uraken |
Pugno con la parte dorsale |
Hiraken |
Pugno con le nocche inferiori |
Vi
sono inoltre diversi modi di colpire a mano aperta per
citarne alcuni: |
Shuto |
Mano a coltello, parte
esterna |
Haito |
Mano a spigolo, parte
interna |
Nukite |
Mano a lancia, punte delle
dita |
Teisho |
Parte del palmo della
mano |
Si deve inoltre intendere
che essendo il Karate un’arte d’autodifesa è necessario apprendere
in primis le tecniche di difesa.
Le
più comuni a mano chiusa sono: |
Age-Uke |
Parata alta contro un
attacco diretto al viso |
Soto-Uke |
Parata media dall’esterno
verso l’interno |
Gedan-Barai |
Parata bassa usata per
contro un attacco all’inguine |
Uchi-Uke |
Parata media dall’interno
verso l’esterno |
Le
principali a mano aperta: |
Shuto-Uke |
Parata media dall’interno
verso l’esterno |
Tate-Shuto |
Parata media dall’alto
verso il basso |
Teisho-Uke |
Parata media con il palmo
della mano |
Inoltre nella pratica del
karate, le tecniche di gamba rivestono una notevole importanza,
dal momento che una tecnica di calcio è molto più potente di
una tecnica di pugno.
Molto importante durante
l'esecuzione di una tecnica di gamba, è il buon equilibrio poiché
il peso del nostro corpo viene, durante il movimento, sopportato
dalla sola gamba di sostegno.
È quindi indispensabile che
il piede d’appoggio sia saldamente fissato a terra e che la
caviglia di tale gamba sia completamente contratta.
Affinché la tecnica sia pienamente
efficace, bisogna sfruttare completamente tutto il nostro corpo
e non solo la gamba che esegue l'azione.
Ruolo determinante durante
la tecnica è svolto dalle anche, delle quali bisogna a pieno
sfruttare la spinta in direzione dell'attacco; deve inoltre
essere rapidamente richiamato indietro il piede che calcia (Hikiashi),
riportandosi in posizione per una la successiva ed allo scopo
di evitare una possibile presa da parte dell'avversario.
La forza del calcio è determinata
da diverse componenti:
1) Ampiezza della traiettoria del piede;
2) Velocità della tecnica;
3) Potenza esplosiva del ginocchio.
Per meglio comprendere le
varie tecniche di gamba, è indispensabile quale primo passaggio,
scomporre le stesse nei singoli movimenti che le compongono.
1) Piegamento del ginocchio
(Hikiashi):
Alzare il ginocchio della gamba che colpisce il più alto possibile
e piegarlo completamente, trasferendo il peso della gamba il
più possibile vicino al tronco.
La padronanza di questo movimento, eseguito in rapidità e scioltezza,
permette di effettuare una tecnica rapida, potente e limitatamente
alle possibilità personali consente di raggiungere facilmente
bersagli più alti.
2) Slancio, piegamento e
distensione della gamba usare l’oscillazione del bacino
usandolo ad esempio come si trattasse di un pendolo:
Nel
karate, esistono due diversi modi di calciare: |
Keage |
Calcio frustato |
Kekomi |
Calcio spinto |
I
principali calci Keage “frustati” sono: |
Maegeri |
Calcio frontale |
Yokogeri “keage” |
Calcio laterale frustato |
Mawashigeri |
Calcio circolare dall'esterno |
Uramawashigeri |
Calcio circolare dall'interno |
Nel calcio
frustato s’impiega al massimo la forza di slancio del
ginocchio. La velocità è un fattore essenziale, senza
la quale si rischia di perdere l'equilibrio.
La massima contrazione è espressa al momento finale
dell'impatto, anche per favorire un rapido ritorno del
piede. |
I
principali calci Kekomi “spinti” sono: |
Yokogeri “kekomi” |
Calcio laterale spinto |
Ushirogeri |
Calcio posteriore |
Fumikomi |
Calcio laterale livello
basso |
Nel calcio spinto, la gamba
si distende al massimo e si spinge in fuori fortemente il piede.
Dopo che il ginocchio è stato sollevato, la gamba viene tesa
con forza per calciare, aiutata dalla forte spinta delle anche.
La massima contrazione viene
espressa al momento iniziale dell'impatto.
3) Corretto impiego delle
anche e delle caviglie:
In entrambi i tipi di calcio,
la forza delle sole gambe non è sufficiente ad eseguire un calcio
efficace.
Ad essa deve essere abbinata
la spinta delle anche e quella del ginocchio. A tale scopo le
caviglie devono essere sottoposte ad un adeguato allenamento
finalizzato al loro consolidamento e irrobustimento tanto più
che nel karate tradizionale il tallone deve essere mantenuto
a contatto con il suolo per poter essere definito come tecnica
definitiva.
Alcune
dinamiche d'allenamento delle principali tecniche di
calcio:
|
1)
MAE-GERI (calcio frontale)
2) MAE-GERI (calcio frontale frustato) |
1)
Questo calcio può essere eseguito sia frustato sia spinto
(keage e kekomi). La parte che colpisce il bersagli si
chiama “Koshi”
2) Si esegue piegando completamente il ginocchio
portandolo all'altezza del petto e poi calciandolo con
un forte movimento a frusta. Il piede esegue una traiettoria
diretta verso il bersaglio avendo come fulcro il ginocchio,
dopo aver eseguito il calcio si riporta indietro la gamba
che ha colpito accostandola al lato interno della gamba
di sostegno. Durante tutta la tecnica, il busto deve mantenere
una posizione eretta.
L'effetto frusta sarà tanto più evidente quanto più velocemente
avverrà il ritorno della gamba che ha effettuato la tecnica.
Si deve inoltre tenere presente che un ruolo molto importante
viene svolto dal bacino che oscillando in avanti svilupperà
una forza più efficace che non il solo movimento del ginocchio.
|
YOKO-GERI
(calcio laterale) 1) YOKO-GERI
KEAGE (calcio laterale frustato)
2) YOKO-GERI KEKOMI e FUMIKOMI (calcio
laterale spinto) |
Questa
tecnica mira soprattutto a colpire un bersaglio posto
lateralmente, (è comunque possibile colpire un bersaglio
frontale, ruotando preventivamente la nostra posizione
rispetto ad esso), con il taglio del piede (sokuto)
mantenendo il tronco in posizione frontale.
Questo calcio può essere eseguito sia frustato che spinto
(keage e kekomi).
1)Si esegue caricando il ginocchio verso il busto e spingendo
poi lateralmente la gamba. In definitiva si calcia utilizzando
la spinta del ginocchio per terminare con la rotazione
e spinta dell'anca. Per riuscire a mantenere il corretto
equilibrio è necessario che il ginocchio della gamba di
sostegno sia leggermente piegato, anche in questo caso
l'effetto frusta sarà più evidente quanto più si sarà
sfruttato il movimento oscillante delle anca e si sarà
richiamata velocemente la gamba che ha effettuato la tecnica.
2) Si esegue quasi come il precedente, spingendo
lateralmente la gamba dopo aver caricato al tronco il
ginocchio. S’impiega per colpire con il taglio del piede.
In questa tecnica è importante sfruttare al massimo la
spinta delle anche e lo scatto del ginocchio che deve
essere sollevato il più in alto possibile. Più
lunga è la traiettoria del piede e più potente sarà
il calcio. Tale traiettoria, durante il calcio e poi
durante il ritorno, deve essere la medesima al fine
di concentrare più forza sul bersaglio e mantenere un
migliore equilibrio. Importante l’azione degli addominali
che permetteranno la dinamica precedentemente descritta.
Nella tecnica fumikomi la parte del
piede che colpisce è il taglio del piede o il tallone,
in questo caso il richiamo è meno rapido, ma viene portato
al massimo l'effetto d’impatto violento, anche eseguendo
traiettorie di caricamento assai ampie. |
MAWASHI-GERI (calcio circolare) |
Affinché
questa tecnica sia efficace, è necessario che le anche
ruotino velocemente e con forza. Il primo movimento
della dinamica del calcio circolare, vede il ginocchio
che si alza lateralmente con la gamba piegata, affinché
il calcio risulti potente, è necessario ruotare l'anca
ed infine lanciare la gamba verso il bersaglio.
In definitiva questa tecnica consiste
nel far ruotare la gamba che calcia attorno al corpo,
dall'esterno verso l'interno, utilizzando lo slancio
della ginocchio e dell'anca.
La traiettoria del piede deve essere
quasi parallela al suolo.
Eseguito il calcio, s’inizia la fase
di ritorno che non è meno complessa, infatti, il piede
che ha colpito, deve effettuare il ritorno seguendo
in maniera inversa la stessa traiettoria e gli accorgimenti
adottati all'andata. |
URAMAWASHI-GERI
(calcio circolare inverso) |
È
simile al calcio circolare, ma eseguito con traiettoria
inversa, cioè dall'interno verso l'esterno.
In questo caso la parte che va all'impatto
è la superficie plantare del piede o il tallone (Kakato).
Anche per questa tecnica, importante
è la velocità d’esecuzione, mediante soprattutto la
rotazione dell'anca e l’estensione del anche.
Il caricamento iniziale, è quasi
simile a quello dello yokogeri kekomi ma solo un po
più esterno. |
USHIRO-GERI (calcio all'indietro) |
Questa
tecnica consiste nel colpire il bersaglio partendo da
una posizione frontale, ruotare e calciare all'indietro.
Partendo da una posizione frontale,
si ruota il corpo di cento ottanta gradi contemporaneamente
al sollevamento del ginocchio della gamba che esegue
la tecnica, fino al busto.
Tendendo poi la gamba, si va' all'impatto
colpendo con il tallone (Kakato). |
Il KATA
L’aspetto più importante del Karate Tradizionale è il Kata. Il kata rappresenta la codificazione delle tecniche e la loro applicazione reale, attraverso l’analisi e la scomposizione del kata “Bunkai” si possono comprendere le tecniche d’attacco e di difesa oltre alla strategia del combattimento.
Il Kata è la base di partenza di qualsiasi tecnica è la tradizione è il nostro “Patrimonio Genetico” In effetti l'accezione giapponese del termine Kata traduce un insieme di tecniche, azioni codificate grazie alle quali sono state fissate conoscenze più vaste. Osservando l’esecuzione del kata si farà attenzione ai suoi due aspetti che in un’arte marziale sono sempre presenti: uno Esterno ed uno Interno. La Via Esterna è quella obbligatoria tramite la quale ogni pratica deve passare, mentre vi sono aspetti che rimangono nascosti alla maggioranza dei praticanti, quel qualcosa in più che s’intuisce che c'è ma al quale è difficile accedere; L'aspetto Interno costituisce il vero punto d’arrivo di un Arte Marziale.
Il Kata inizia e finisce con il saluto, alla base del kata vi è sempre una difesa e forse sta proprio in questo che il karate è ricerca del Do, ancora una volta riscontro vero delle parole del Maestro Funakoshi.
Ecco alcuni cenni storici sui kata trasmessici dal Maestro Funakoshi: “ Il Maestro Funakoshi Nel 1930 cambia i nomi dei Kata che ammontano sotto il suo insegnamento ai 15 kata classici di Okinawa, ma scelse per ogni Kata un’immagine rappresentativa, con ideogrammi che corrispondessero al sistema di pronuncia del nome giapponese ed è per questo che la maggior parte dei kata dello stile Shotokan hanno nomi diversi da quelli utilizzati nelle altre scuole dove si praticano kata della stessa origine.
In questo modo Pinan è diventato Heian 1,2,3,4,5, che significano: ” Pace o Tranquillità”;
Naifanchi è diventato Tekki 1,2,3, che significano “ Cavaliere d’Acciaio” ed esprime la posizione del corpo, che assume saldamente una postura che ricorda un cavaliere, l’acciaio si riferisce alla forza che ci vuole per eseguire questi Kata;
Kusanku è diventato Kanku Dai che significa “ Guardare il Cielo” che quindi conduce chi lo esegue ad uno stato d’animo molto aperto;
Seshan è diventato Hangetsu che significa “ Mezza luna” e corrisponde al modo di muovere i piedi a semicerchio;
Chinto è diventato Gankaku che significa per la sua particolare postura “ Gru posata sulla roccia”
Wanshu è diventato Enpi che significa per le sue posizioni veloci alte e basse “Volo di rondine “.
Passai o Bassai-dai significa “ Attraversare o distruggere la fortezza”
Jion riprende il nome del tempio Buddista di Jion
Jitte significa “Dieci Mani ovvero dieci avversari” è quindi il kata nel quale ci si allena a delle tecniche contro dieci avversari.
Questi 15 kata sono stati insegnati da Funakoshi, più tardi altri 11 kata sono stati aggiunti: Kanku-sho, Bassai-sho, Sochin, Nijushiho, Gojushiho-dai, Gojushiho-sho, Meykyo, Unsu, Chintei, Jiin, Wankan”.
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Punti
importanti nell’insegnamento del Kata:
1) Inizia e finisce con il saluto;
2) Non è una combinazione di Kihon, dall'inizio alla fine deve avere continuità con armonia e ritmo;
3) Non cambiare le tecniche o movimenti per propria comodità (livello);
4) Corretto uso dell'Enbusen (tracciato di esecuzione);
5) Armonia (unione) della tecnica e della respirazione;
6) Precisare il numero dei movimenti e spostamenti, comprendere il tempo standard dell'esecuzione;
7) Direzione dello sguardo nella direzione delle tecniche;
8) Il movimento deve essere vivo, i Kiai deve venire dall'addome;
9) Il cambiamento di direzione deve essere effettuato con la rotazione delle anche, la gamba di sostegno deve essere forzata contro il terreno per avere forza riflessa e lo spostamento deve essere effettuato con leggerezza;
10) La tecnica deve essere effettuata nello stesso momento del cambiamento di direzione
11) Deve essere chiaro il significato della tecnica;
12) Deve essere molto chiaro il collegamento delle tecniche;
13) Si deve cercare di non fare movimenti inutili, reazione ecc.;
14) E’ necessario ripetere molte volte l'allenamento di Bunkai
Tre punti importanti:
A - Uso della velocità;
B - Uso della forma;
C - Uso del corpo
L’apprendimento dei kata deve essere graduale e non si dovrebbe dimenticare: l'antico detto HITO KATA SAN NEN, Un Kata ogni Tre Anni che dimostra quanto occorra studiare poiché non c'è una Via facile e nulla viene regalato.
Sarà utile, nelle prime fasi di apprendimento, suddividere il kata in vari momenti la prima fase riguarda certamente il tracciato d’esecuzione con le annesse tecniche dopodiché la memorizzazione delle tecniche, la loro concatenazione e il tempo di esecuzione.
Una volta memorizzato si dovrà allenare con assiduità perché la conoscenza profonda del kata porterà sicuramente il praticante a capire meglio il Karate nei suoi aspetti Interni, senza dimenticare che solo attraverso la pratica quotidiana si potrà trovare, un giorno forse, sulla giusta via del Karate-Do. L’uso corretto della forza, della velocità, della transizione “forse l’aspetto più difficile da spiegare” della forma e dello zanshin fanno del kata uno strumento unico di apprendimento
KUMITE: Combattimento:
Il combattimento nel Karate-Do presuppone il completo controllo sia dell’aspetto tecnico sia dell’aspetto emotivo. Non si deve mai colpire l’avversario il concetto di KO non esiste nel Karate Tradizionale, rimane comunque inteso che la tecnica di Karate deve avere tutti requisiti indispensabili per essere definita “tecnica definitiva”, definitiva nel senso che deve essere in grado di distruggere la capacità offensiva e difensiva dell’avversario. Nel kumite deve sempre essere presente il pensiero del Maestro Funakoshi: ”Karate ni sente nashi” (nel karate non c’è vantaggio ad attaccare per primi) oltre al fatto che combattere non vuol dire necessariamente vincere a tutti i costi ma combattere con l’idea di non subire in nessun caso deve sempre essere presente, una frase che forse può aiutare in questo è quella citata nel libro Canzoni sulla Via della Spada." Vinco oggi grazie al lavoro di ieri questa è la virtù della pratica". Solo con questi presupposti etici l’Arte Marziale viene espressa in tutte le sue forme più nobili.
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Vi
sono tre diverse fasi di kumite: Fondamentale, semilibero
e libero. Gohon Kumite, Sanbon Kumite e Kihon Kumite fanno
parte del kumite fondamentale mentre il Jiu Ippon Kumite
è il semilibero ed infine il Jiu Kumite combattimento
libero. |
Gohon Kumite: |
Combattimento fondamentale
preordinato di cinque passi. In questo particolare tipo
di combattimento l’atleta acquisisce la potenza della
tecnica sia di difesa sia di attacco, lo studio dell’assetto
e della stabilità è uno dei principali motivi per allenare
questo tipo di Kumite. Solitamente il tempo dell’attacco
è cadenzato; |
Sanbon Kumite: |
Combattimento fondamentale
preordinato di tre passi. In questo caso l’atleta deve
a, a differenza del primo, acquisire il tempo dell’attacco,
della difesa e possibilmente il controllo emotivo non
subendo l’iniziativa dell’avversario. Il tempo dell’attacco
è libero; |
Kihon Ippon Kumite: |
La fase in cui ci
si scontra, forse per la prima volta, con la propria
determinazione sia per chi attacca sia per chi difende.
L’equilibrio emotivo si acquista attraverso lo studio
serio ed approfondita di questo lato del Kumite; |
Jiu Ippon Kumite: |
Combattimento semilibero
ad un passo le tecniche vanno dichiarate prima di attaccare.
Il tempo come pure la distanza e gli spostamenti sono
liberi, resta inteso che l’attacco va portato con assoluto
controllo. In questo tipo di kumite si deve tener presente
che vi è una sola possibilità di attacco e pertanto lo
studio della distanza e del tempo deve essere acquisito
attraverso lo studio di questa forma, parimenti lo studio
degli spostamenti e del tempo della difesa è altrettanto
importante. |
Jiu Kumite: |
Aspetto molto importante
del Karate è appunto il combattimento libero. In questo
caso lo scontro mentale e fisico degli avversari avviene
su un piano diverso. L’attacco può essere singolo o combinato,
la distanza e il tempo è libero si deve curare ancora
una volta di più il controllo della tecnica e della mente.
L’aspetto di controllo mentale è base essenziale per il
miglioramento dell’attività psichica del karateka nella
sua più alta espressione, controllare la mente equivale
a controllare il corpo e pertanto la tecnica, solo con
questi presupposti il combattimento libero può essere
educativo e vissuto come Arte marziale altrimenti si corre
senz’altro il rischio di ferire se non addirittura uccidere
il proprio avversario come avviene nella Boxe o in altre
discipline violente. |
Vorrei evidenziare, qui di
seguito, alcuni precetti d’insegnamento del Maestro Anko Itosu
al Maestro Funakoshi “Tratto dal libro la Storia del karate
di K.Tokitsu” tenendo a mente il momento storico si impone necessariamente
da parte mia una interpretazione non militaristica della situazione,
in effetti, quando il Maestro parla di soldati io penso all’accrescimento
sociale ed umano.
01) Il Karate non ha come
scopo soltanto di educare il corpo, ma di permettere
di consacrarsi in qualunque momento, con un coraggio
vitale, al proprio Maestro, ai parenti, al bene pubblico.
E’ per questo che non mira al combattimento contro un
solo nemico. Anche se l’avversario è un ladro o un aggressore,
bisogna sforzarsi di parare e schivare. E’ importante
non ferire facilmente gli altri con calci e pugni;
02) Il Karate ha come scopo
principale rendere il corpo robusto come l’acciaio e
fare delle membra l’equivalente di una lancia o di un
arpione. Esso coltiva naturalmente una forza di volontà
marziale. Quindi, se lo si insegna ai bambini nell’età
della scuola elementare, essi avranno occasione di applicare
il Karate ed altre arti quando diventeranno più tardi
dei soldati. Come militari, potranno essere utili alla
società del futuro. Il Generale Wellington aveva detto
a Napoleone I° “ La battaglia di oggi può essere vinta
sul terreno di gioco della scuola del nostro paese”.
Questa frase deve essere compresa come una massima importante;
03) E’ difficile progredire
rapidamente nel karate. Conformemente alla massima:
“Un bue cammina lentamente, ma supererà un giorno le
mille leghe”, se ci si allena una o due ore con concentrazione
ogni giorno si otterrà, nel giro di tre o quattro anni,
un corpo superiore al normale. Così numerosi adepti
raggiungeranno lo stato profondo del karate;
04) Nel karate ci si serve
soprattutto delle mani e dei piedi. Bisogna allenarsi
pienamente tutti i giorni al makiwara, abbassando le
spalle, aprendo bene i polmoni, sprigionando la forza,
calcando inoltre fortemente il suolo con i piedi, concentrando
il Ki alla base del ventre. Quando si progredisce, bisogna
esercitarsi cento duecento volte per ogni pugno al makiwara;
05) A proposito della postura
nel karate, occorre mettersi appiombo a livello delle
anche, abbassare le spalle decontraendole, stare in
piedi appoggiando i piedi con forza, concentrando il
Ki alla base del ventre. Occorre inoltre che il corpo
si indurisca come se le parti in alto ed in basso del
corpo si tirassero reciprocamente;
06) A proposito dei Kata di
karate, bisogna allenarsi ripetendoli il più possibile.
Ma è indispensabile conoscere il significato e l’applicazione
di ogni tecnica. Bisogna sapere che vi sono numerosi
insegnamenti verbali complementari ai Kata per le tecniche
di attacco, di parata, di liberazione e di presa;
07) A proposito delle tecniche,
occorre allenarvisi distinguendo quella che rafforzano
il corpo e quelle che hanno un obiettivo strategico;
08) Durante l’allenamento del
karate, bisogna avere la volontà di un guerriero, con
lo sguardo forte, spalle abbassate, corpo indurito.
“ Quando ci si allena alle parate e ai colpi, bisogna
farlo sempre con tanta volontà come se si facesse fronte
a dei veri nemici” allora si potranno acquisire delle
capacità reali. Si deve fare bene attenzione;
09) Nel momento dell’allenamento
al Karate, se ci si sforza troppo in rapporto alle proprie
capacità fisiche, il viso e gli occhi si arrossano perché
il ki risale. Bisogna fare attenzione, poiché ciò è
nocivo alla salute;
10) Abitualmente la vita degli
esperti di karate è lunga; questo dipende dal fatto
che essi sviluppano i muscoli e le ossa e migliorano
anche il sistema digestivo e la circolazione sanguigna.
Per questo penso che se utilizziamo il karate come base
di educazione fisica nel sistema scolastico fin dalla
scuola elementare, potremo formare su vasta scala degli
uomini capaci di far fronte a dieci avversari grazie
all’arte che avranno acquisito.
“ Se insegnamo il karate all’Istituto
magistrale seguendo queste dieci istruzioni formeremo
degli Istruttori che insegneranno in seguito nelle scuole
delle diverse regioni. E, se essi insegneranno con rigore
nelle scuole elementari regionali, penso che il, risultato
sarà evidente di qui a una decina d’anni, non soltanto
nella nostra provincia, ma in tutto il paese, e che
saremo, così, utili alla società militare del nostro
paese.
Anko Itosu Ottobre
1908. |
IL RAPPORTO ALLIEVO
MAESTRO.
Da sempre nel Karate come
del resto in tutte le arti marziali la trasmissione delle conoscenze
avviene attraverso la figura del Maestro.
Ad Okinawa, ad esempio, con
l’avvento del Clan Satsuma venne emanato un editto che vietava
la pratica delle arti marziali motivo per il quale esse venivano
spesso insegnate di notte e il luoghi sicuri.
Sin dai tempi antichi l’esoterismo
nel Karate era una forma obbligata d’insegnamento e la trasmissione,
a una cerchia ristretta di persone, faceva si che nelle arti
marziali la trasmissione dell’Arte sia sempre avvenuta oralmente
niente era scritto. In questo contesto la figura dominante era
ed è il Maestro.
Il punto cardine della cultura
e delle conoscenze nel Karate-Do è il Maestro.
La trasmissione avveniva
e avviene tuttora come si usa dire “da mente a mente” o come
amano dire i Buddisti da “ cuore a cuore” ovvero da Maestro
ad allievo.
Il rapporto che si viene
a creare tra l’allievo e il Maestro in questo caso è un rapporto
molto particolare, in effetti le parole in alcune occasioni
non servono, bisogna saper cogliere il momento, l’attimo, l’espressione
del Maestro.
Anche questa è una sua prerogativa,
l’adottare degli espedienti affinché l’allievo percepisca, intuisca
o paragoni il suo vissuto con la tecnica del Maestro.
L’allievo deve recepire,
ascoltare e cercare di mettere in pratica quello che il Maestro
chiede e richiede. Spesso ci si può bloccare davanti alle difficoltà
ma si deve avere fiducia nel Maestro, una fiducia incondizionata,
d’altra parte gli e ne può venire solo del bene.
Essendo un rapporto fra persone
tra allievo e Maestro si deve instaurare un rapporto fiduciario,
l’allievo deve comprendere che tipo di persona è il Maestro,
se è capace e, ancora più importante, se è sincero e onesto,
il Maestro da parte sua ha l’obbligo morale di non nuocere alla
persona che si affida ai suoi insegnamenti.
Vorrei qui riportare parte
di una prefazione tratta da un testo scritto dal Maestro Shirai
“Manuale di Karate” che ritengo molto esaustiva di quanto sopra
esposto: “ E' osservazione corrente, rilevare come, ai giorni
nostri, vi sia una larghissima parte di uomini che affermano
di aver compiuto atti, ricerche o esperienze ad essi, nella
realtà, del tutto sconosciuti. Si comportano così perché, impressionando
con le parole, nascondono la loro sostanziale povertà spirituale
di cui potremmo anche dolerci se non dovessimo constatare che
la generalizzata mancanza di senso critico, la scarsa volontà
di approfondire le apparenze ed un crescente disimpegno culturale
consentono loro di affermarsi progressivamente raggiungendo
risultati che assolutamente non meriterebbero.
E' a questo tipo di uomo
che dobbiamo cercare di contrapporre una personalità che, pur
cosciente dei propri limiti e pur pienamente convinta di non
poter attingere la perfezione, si sforza ogni giorno di correggere
i propri errori con pazienza e con umiltà.
Questo tipo di uomo deve
costituire il nostro modello comportamentale e non solo per
una forma di nostro, personale, arricchimento ma dare un contributo
concreto a modificare dal di dentro una società che sembra privilegiare
sempre di più chi non merita. E' necessario, in altri termini,
essere uomini che sappiano dimostrare con i fatti le proprie
capacità mettendo a frutto gli sforzi compiuti per acquisire
conoscenze utili a sé stessi ed agli altri.
Importante, ed addirittura
pregiudiziale, è avere la convinzione che la ricerca della perfezione
nella coscienza della propria perfettibilità è possibile solamente
quando il proprio livello culturale, inteso come senso spirituale
e non certo nozionistico del termine, è mantenuto alto.
Mantenere alto il proprio
livello significa, soprattutto, ripercorrere continuamente il
cammino intrapreso rivivendo sempre i vari momenti, i diversi
gradi, le necessarie esperienze progressivamente vissute. La
ricerca di un vertice sempre più alto non farà diminuire, in
questo modo, l'estensione della base di quella piramide con
cui si può configurare la vita e la solidità della base è premessa
di analoga forza della sommità: un punto estremo di cui si conosce
l'esistenza ma che non si sa quanto alto possa essere. Sono
queste le fondamenta ideologiche con cui affronto l'allenamento
pienamente convinto, come sono, che esso rappresenti la visualizzazione
di concetti interiori dai quali tutte le tecniche traggono un
valore infinitamente più alto.
Io spero che chi perseguirà
la via del karate non perda mai di visto mio pensiero: in caso
contrario farà solo dell'ottima ginnastica”.
Conclusioni
La
vita di ognuno di noi, con il suo carico di esperienze, di azioni,
di riflessioni e di conoscenze si presenta come una mappa, un
reticolo ricco di vuoti e di pieni, segnato da relazioni di
continuità e discontinuità.
Nella mia storia il Karate
entra come scoperta, curiosità, si trasforma in obiettivi di
ricerca della forma, del benessere, fino a diventare progressivamente
una dimensione di collegamento fra forma, il benessere, la conoscenza
e la relazione con gli altri.
Ecco, in questo collegamento,
in questa relazione, sta forse la potenzialità che il Karate
ha in me contribuito a sviluppare l’agire, ma non solo il fare,
ma il saper agire e il saperlo trasmettere agli altri.
Oss. Davide Rizzo
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